La visita pastorale

Nel ridente centro campestre di Modestino è tutto pronto per l’attesa visita pastorale del vescovo Evaristo Ricconi, pastore severo, ma giusto, che anche quest’anno omaggerà i fedeli in occasione della festa del Santo Patrono.

Le pie donne del piccolo ma dignitoso paesino hanno ornato umilmente a festa i cadenti balconi e colorato di fiori la piazzetta di fronte alla vetusta, ma imponente cattedrale. Un coro di orfanelli un po’ svociati, adeguatamente addestrati dal parroco don Franco Miseria, intona con trasporto allegri, ma rispettosi canti di benvenuto. I membri della banda del paese, impettiti nelle loro divise rattoppate, soffiano nei vecchi ottoni ammaccati, mentre il sindaco Nunzio Accattone, nel suo liso frac d’ordinanza, è pronto per il breve, ma intenso discorso di benvenuto.
Quand’ecco il lucido, ma sobrio SUV pilotato dall’elegante, ma morigerato segretario del presule fa il suo ingresso rombante nella piazza accolto da un flebile, ma fremente battimani.
«Ben… Benvenuto Eccellenza!», balbetta rauco il primo cittadino in un microfono gracchiante, mentre il presule lo raggiunge con passo maestoso, ma umile sul traballante palchetto allestito per l’occasione. «È con gioia ed emozione che la accogliamo fra di noi in questa giornata dedicata al nostro patrono San Pezzente». Il vescovo lo ascolta pensoso, accarezzando al contempo la croce francescana d’oro massiccio poggiata delicatamente sul suo ventre prominente, ma buono.
«Eccellenza reverendissima… ben conoscendo la sua nota insistenza affinché l’opzione preferenziale per i poveri, così centrale nel vangelo, si traduca in scelte pastorali concrete – prosegue con tono flebile ma deciso il sindaco – si è pensato che il modo più cristianamente corretto di renderle omaggio in questo Santo giorno fosse quello di dedicarle un gesto di misericordia…».
Si avvicina claudicante, ma solenne al microfono il parroco don Miseria. Barba lunga di qualche giorno, la tonaca impataccata, ma un lampo di soddisfazione nei limpidi occhi chiari: «Eccellenza… in occasione della sua agognata visita pastorale i parrocchiani hanno organizzato una piccola colletta destinata a finanziare la costruzione di un centro di accoglienza frugale, ma ospitale, destinato a disagiati e indigenti… Le umili, ma generose famiglie della nostra comunità, incuranti dei loro disagi economici, acuiti dalle recenti epidemie e conseguenti carestie, si sono tolte il pane di bocca per contribuire all’edificazione di quest’opera santa che recherà conforto a senza tetto, madri sfortunate, disoccupati, orfani, migranti e profughi…». Il lungo elenco di disgraziati sembra irritare leggermente il vescovo che sbuffa sommesso giocherellando con la sua croce d’oro, muovendo nervosamente i piedi fasciati dai lucidi, ma austeri mocassini.
Il sindaco Accattone nota la reazione dell’illustre ospite e interrompe il parroco esibendo al contempo il contenuto della cesta: «Ecco Ecce… Eccelle… nza! Ben trentaduemila euro raccolti in pochi mesi per avviare i lavori del nostro centro di accoglienza che vorremmo intitolare al nostro Santo protettore: Centro Pezzente!». Applausi convinti dall’assemblea. La cifra snocciolata con “nonchalance” dal primo cittadino di Modestino ha inaspettatamente un effetto rinvigorente per l’anziano prelato: il suo volto si illumina.
«Questo denaro», prosegue il sindaco, «viene oggi consegnato simbolicamente al nostro patrono, nel giorno a lui dedicato, perché servirà a iniziare quest’opera, di cui ci auguriamo sarà lei, Eccellenza, a porre prossimamente la prima pietra!». Con gesto grave, ma contenuto il sindaco consegna la cesta al parroco che, con mano tremante, ma felice, la pone reverente e emozionato ai piedi della statua del Santo.

«Carissimi fratelli e sorelle«, scandisce all’improvviso con tono suadente, ma fermo l’arcivescovo Evaristo Ricconi, interrompendo l’ovazione cittadina e allontanando bruscamente dal microfono il sindaco di Modestino, «è con gioia e trepidazione che accolgo cotesto vostro gesto di solidarietà così opportuno e inaspettato in questo tempo di egoismi e individualismi. Un tempo, ahimè», prosegue mesto, ma dignitoso il presule, «in cui la nostra Santa Chiesa si trova da sola ad affrontare la prepotenza e l’avidità di un mondo ateo e secolarizzato dominato da un’economia che spesso… uccide!». La pausa teatrale del navigato oratore genera un applauso accorato dall’attenta assemblea. «Sì… fratelli e sorelle, un’economia che uccide, perché basata su un sistema di sviluppo che umilia i più poveri secondo l’implacabile cultura dello scarto. Ma i poveri non sono scarti… anzi sono la carne di Cristo!». Un nuovo applauso esplode inevitabile, accompagnato da grida di sacro giubilo.
«Ma fratelli e sorelle», prosegue mite, ma fermo il saggio prelato, «cosa accadrebbe se il frutto del vostro eroico e benedetto gesto di solidarietà, invece di concorrere alla realizzazione della storia della salvezza, trasformandosi in carità operante, cadesse nelle mani dei lupi?». Una nuova studiata pausa del vescovo fa calare un silenzio timoroso, ma rispettoso nella piazzetta di Modestino. Il segretario don Clelio Benestante sogghigna intuendo per esperienza dove vada a parare il suo principale.
«Avete pensato ai rischi che il peccato di corruzione dilapidi in rivoli diabolici il denaro della vostra santa colletta?». All’evocazione di satana un fremito di orrore attraversa la piazza. «Avete considerato la possibilità che quegli scomunicati degli uomini della criminalità organizzata si impossessino subdolamente dei soldi odorosi di bene da voi faticosamente raccolti?». Altro fremito di orrore tra gli astanti, altra pausa tattica dell’oratore.
«Carissimi fratelli e sorelle… non abbiate paura! Ma allora che ci sta a fare il vostro buon pastore, il vostro amato vescovo Evaristo? Eh?». Un raggio di speranza illumina i volti degli sprovveduti fedeli di Modestino. «Cosa sono venuto a fare oggi, se non per mettere al sicuro il frutto del vostro amore e impedire che gli artigli del diavolo vi strappino cotesta piccola ma umanitaria somma raccolta con tanti sforzi?».
«Piccola un piffero…» sussurra fra sé e sé il sindaco che ha già capito l’antifona.
«Ed è per questo che, ringraziandovi per questa opera benemerita, che certamente concorre a sgombrare il vostro cammino verso il Paradiso, preferisco accollarmi l’onere di custodire nella sicura e santa cassaforte curiale questi pochi denari, in attesa che raccogliate il resto della somma necessaria al completamento di questa santa opera di beneficenza!».
«Pochi denari?», sussurra dubbioso, ma irritato il parroco, «Cosa intende per pochi? Sono trentaduemila euro, Eccellenza!».
Ma la domanda del parroco di campagna resta senza risposta. L’arcivescovo ha appena pronunciato l’ultima parola che con gesto regale, ma inesorabile, il segretario si è impossessato della cesta ed è balzato con il presule a bordo del SUV ripartito a razzo lasciandosi dietro solo una nuvola di gas di scarico. Puzzolente, ma santa, ovviamente.

Questo articolo è apparso sul numero di gennaio-febbraio 2021 del bimestrale”Messaggero Cappuccino”

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In questa storia che è anche mia

In Italia, quando esce un nuovo album di un autore di musica pop arrivato al successo tra i ’70 e gli ’80 noi fan incanutiti viviamo sempre sensazioni opposte. Curiosità e affetto ci fanno desiderare di ascoltarlo subito per riprendere il dialogo con un vecchio amico. Ma spesso predomina la paura di trovarci di fronte una brutta copia dell’idolo della nostra adolescenza: un artista bollito che ormai non ha più nulla da dire e scrive e canta sempre la solita (vecchia) canzone, facendo sbiadire il poster che avevamo nella nostra stanzetta.

È esattamente con queste sensazioni che “mi sono fatto regalare” a Natale il nuovo disco di inediti di Claudio Baglioni, “In questa storia che è la mia”. Quattordici canzoni, legate come una sola storia, in un sofisticato ma sobrio concept album partorito un mese fa, dopo sette anni di silenzio creativo.

Le anticipazioni mi avevano lasciato perplesso. “Gli anni più belli” e “Io non sono lì”, pur nella loro perfezione formale, mi sembravano banali e già sentite. Come se a un software musicale fossero stati fatti ascoltare i migliori album di Claudione chiedendogli poi di sfornare due nuovi brani.

L’inflazione televisiva del nostro – direttore artistico di due ottimi Festival dei fiori – la fama di belloccio rifatto, la schizzinosa stigmatizzazione di cantore lagnoso dell’amore dei ragazzini, erano tutti elementi che giocavano a sfavore di questa operazione musicale che si presentava, oltretutto, con la retorica presunzione di opera riassuntiva della sua carriera in chiusura dell’anno orribile della pandemia.

Eppure, dopo due ascolti integrali di questi ottanta minuti di musica e parole, ho rincontrato un compagno di strada. Come allora, ha quindici anni più di me, oggi anche i capelli bianchi e la mandibola apparentemente plasticata, ma ha ritrovato la creatività, la classe e soprattutto la libertà dei tempi migliori.

È stato lui stesso a raccontare questo disco come il figlio di “Oltre” (1990) e “Strada facendo” (1981). Davvero, nei suoni raffinati, volutamente e sfacciatamente analogici di queste canzoni c’è davvero tutto il meglio del suo repertorio di autore e interprete, quasi senza passi falsi, con un’inventiva e al contempo un rigore da artigiano che ci scaldano e rallegrano nei primi freddi paurosi giorni del 2021.

Completamente centrato, come artista e come persona, Claudio canta quello che sa cantare: l’amore perduto, vissuto, giocato, maledetto e benedetto. Almeno cinque brani, nel cuore di una partitura quasi operistica nella sua concezione, sono di fattura sopraffina nella melodia e nella scelta certosina di testi sinceri e al contempo ricercati. “Come ti dirò”, con un arrangiamento leggerissimo e lussuoso di Celso Valli, destinata a diventare un classico del suo repertorio e magari anche a essere ricantata in duetto con una voce femminile (azzardo.. Giorgia?). La trascinante, allegra, “Uno e due”, che ci ha riportato alla mente un gioiello come “Navigando” del già citato “Oltre”; poi l’avvolgente e moderna “Pioggia blu”, dove si ritrova nelle penombre il Claudione più voluttuoso e intrigante; e il disperato grido di “Mal d’amore” con quei versi – “Non guariremo mai da questo mal d’amore… Fa un male cane e su e giù ci sfascia il cuore…” – che potrebbero essere un manifesto della sua poetica.

Ecco, un artista che nel 2020, ormai alla soglia dei settanta, ha il coraggio sfacciato di riproporre senza vergogna la rima “amore e cuore”, e di farlo in un disco curato come questo, ci dà davvero speranza per un futuro più autentico, fatto di abbracci. E Dio sa quanto ne abbiamo bisogno.

Fabio Colagrande

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Non solo calcio (a proposito di Diego)

Calcio? Credi davvero che quando parliamo della morte di Maradona stiamo parlando solo della scomparsa di un bravo giocatore di pallone? Oh no, amico mio.

Stiamo parlando di umanità, fede e soprattutto poesia.

Maradona non era simpatico. Era basso, tracagnotto, mezzo indio, ignorante, presuntuoso e arrogante. Si portava appiccicata addosso la sua origine popolare, non era mai stato capace di integrarsi con la civiltà superiore, si vestiva sempre da cafone, portava l’orecchino, faceva il bullo, andava in giro sempre con un codazzo di amici e parenti. In più era tossicodipendente, frequentava i mafiosi ed evadeva il fisco. E in più, cosa davvero imperdonabile, era vincente. Nello sport più popolare del globo è stato il più forte, colui che da solo ha fatto vincere due scudetti al Napoli e i mondiali al suo Paese. Metteva paura agli avversari con la sola presenza in campo: tecnica sopraffina, fiuto del goal, grandioso nel mandare in porta i compagni, robusto fisicamente, inarrestabile quando partiva palla al piede, se lo buttavi giù si rialzava come una molla, micidiale nelle punizioni, carismatico e trascinatore. E questo in molti non gliel’hanno mai perdonato.

Ma tutto questo sarebbe niente.

Maradona era autentico anche nelle sue contraddizioni. Spontaneo, istintivo, generoso, ma anche goloso, lussurioso, imbroglione, in una parola fragile, umano. Il suo stesso talento, che lo faceva amare e odiare, lo ha consumato. Mentre chi gli stava attorno sfruttava il suo successo, ci speculava sopra per poi scaricarlo appena diventato drogato, grasso e perdente, lui continuava a cercare di giocare, come un bambino che non vuole tornare a casa anche se la partita è finita. Come tanti artisti del rock e del cinema, come Marco Pantani, aveva raggiunto il successo troppo presto e poi non era mai stato capace di gestirlo, finendo vittima di se stesso. Non aveva mai trovato una compagna, un amico, che lo aiutasse a volersi bene davvero. Che lo convincesse che non era più il ragazzino straccione di Villa Fiorito in lotta con il mondo, ma era un campione arrivato che ora doveva trovare la pace e la serenità. Una parabola tragica ma anche terribilmente autentica, così lontana da certi stereotipi positivi astratti e disincarnati, così vera, così umana che non può lasciare indifferenti. Insegna più la sua vita che quella di tanti bravi ragazzi fortunati.

Maradona ha messo in piazza le sue e le nostre fragilità, ci ha ricordato il nostro lato debole e oscuro, l’unico per cui meritiamo di essere salvati. E anche questo non possiamo perdonarglielo.

Infine Maradona è stato un meraviglioso personaggio tragico, così rozzamente vero, così paradossale nella sua capacità di mescolare il basso dei campetti di fango con i palcoscenici del calcio mondiale, così struggente nella sua impotenza di riscattarsi da una miseria la cui puzza si sentiva sempre addosso, così incapace di controllare la sua fame di successo, i suoi vizi, la sua voglia di fregare i potenti. Un eroe-antieroe, un vincente-perdente, un uomo morto triste e insoddisfatto a 60 anni, dopo aver regalato gioia e bellezza a milioni di persone, dopo essere stato segno di rivincita per tantissimi ultimi come lui. Soffocato da un talento e una fama che erano diventati la sua condanna e al contempo ancora alla ricerca di qualcosa che gli mancava.

Chi crede deve ringraziare Dio per avercelo regalato, ma anche riflettere sul fatto che la bellezza e la gioia hanno sempre un prezzo, hanno sempre bisogno di un sacrificio, consapevole o meno.

Lo vedi, caro amico, che il calcio è solo un dettaglio?

Ti abbraccio,

Fabio

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Ciao Giggi

Vi spiego perché la morte di Luigi Proietti lascia un vuoto immenso nel mondo dello spettacolo italiano.

Luigi, in arte Gigi, Proietti, aveva un talento attoriale assolutamente unico che gli ha permesso di attraversare la seconda parte del ‘900 italiano e di sconfinare nel secolo successivo, impersonando, sempre da protagonista, le diverse fasi storiche dello spettacolo italiano, lungo una parabola che sono tentato di definire decadente. Il piano-bar, il teatro impegnato d’avanguardia, la commedia musicale, gli “One man show”, il teatro drammatico, il varietà televisivo, la canzone romana, il cinema comico, la fiction televisiva, i cinepanettoni, la giuria dei talent-show. Ma la particolarità che rende unico Gigi Proietti era la sua capacità di “contaminare” tutti questi generi.

Capacità che è infatti alla base dello spettacolo che lo ha fatto entrare per sempre nella storia del teatro italiano “A me gli occhi please”, costruito sul continuo, affabulatorio, alternarsi di stili e generi. Gigi passava dall’uno all’altro con la leggerezza propria solo dei grandi talenti e portandosi sempre appresso tutto il repertorio. Era nello stesso istante intenso, drammatico, ironico e comico. Sfotteva il fine dicitore facendoti vedere che lui era il fine dicitore. Storpiava irresistibilmente Jacque Brel lasciandoti intendere che avrebbe saputo cantarlo seriamente. Rifaceva la macchietta di Gastone senza essere farsesco ma con l’elegante malinconia futurista del suo autore. Recitava il Lonfio di Fosco Maraini con una tecnica degna della Divina Commedia. Cantava Er Barcarolo facendoti venire i brividi. Nel suo corpo di attore, nella sua voce duttile, si fondevano più generi di spettacolo, dai più alti e colti ai più popolari. A volte sfiorava quasi il manierismo per questa sua capacità trasformistica. Ha saputo riassumere in una vita e in un unico corpo di attore 80 anni di storia dello spettacolo.

Insomma, quando c’era in scena lui c’erano in scena Petrolini, Gassman, Eduardo, Rascel, Gabriella Ferri, Enrico Montesano, Renzo Arbore, il trio Marchesini-Solenghi-Lopez … Per questo, Giggi, lascia un vuoto immenso.

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HUMANAE VITAE E IDENTITÀ DI GENERE: DALLA PATERNITÀ RESPONSABILE A UN’IDENTITÀ’ MASCHILE RINNOVATA

Fabio Colagrande

L’anniversario tondo dell’enciclica più tormentata di Paolo VI, coinciso con l’anno della canonizzazione del suo autore, ha dato a più di un commentatore l’opportunità di sfatare alcuni falsi miti sulla sua genesi e di ricomprenderne il valore. Nuove ricerche archivistiche[1] e riletture comparate tra il testo di Papa Montini e l’Amoris laetitia di Papa Francesco[2], hanno permesso di cogliere, da un lato, quanto l’Humanae vitae si fece carico delle tensioni post-conciliari, e dall’altro, quanto sia stata profetica la sua affermazione sull’inscindibilità antropologica tra amore coniugale e fecondità. Si tratta di considerazioni che aiutano a contestualizzarne il contenuto sullo sfondo dello sviluppo della dottrina che caratterizza la storia della Chiesa e al contempo ad apprezzare lo scatto in avanti, nella direzione della responsabilizzazione del ruolo genitoriale, che con essa si realizza nella pastorale familiare cattolica. È proprio a partire da quest’ultima osservazione, circa il riconoscimento degli sposi come «liberi e responsabili collaboratori di Dio creatore» (Humanae vitae 1), che è giustificato interrogarsi come gli studi sull’identità di genere, sviluppatisi nell’ultimo mezzo secolo, abbiano approfondito e ridefinito il ruolo degli sposi-genitori.

I temi cari al dibattito sulle “questioni di genere”, intese come prospettive culturali o fenomeni sociali connessi alla sessualità della persona umana[3], non sono evidenti – per naturali motivi storici – all’interno del testo dell’Humanae vitae. Ci si ferma, in quest’ambito, alla mera costatazione del «mutamento», del «modo di considerare la persona della donna e il suo posto nella società», inserita nel secondo paragrafo. Ovviamente, nel 1968, l’enciclica non poteva, e forse non voleva, andare oltre in una direzione che, oltre a esulare dalle sue finalità, per l’epoca era poco esplorata. Vi sono però nel documento pontificio degli accenni e delle lacune, in proposito, che – mantenendo ferma l’intuizione centrale dell’inscindibilità fra aspetto unitivo e procreativo nel matrimonio cristiano – si prestano a una rilettura feconda nella prospettiva che abbiamo scelto. Si apprezza così il valore fondativo di un documento magisteriale che, nonostante rifletta la visione di un’epoca storica sociologicamente ormai lontana, si presti a essere calato efficacemente nell’oggi mantenendo in nuce il suo valore etico e dottrinale.

In particolare, questa rilettura potrebbe rilanciare un tema sottaciuto del più recente magistero pontificio e cioè una visione rinnovata – per certi versi rivoluzionaria – dell’identità maschile e dunque – tornando all’Humanae vitae – del ruolo del marito e del padre nella vita matrimoniale cristiana. In questo senso, credo sia da condividere finalmente un’idea di quel complesso fenomeno chiamato “femminismo” non come accidente culturale responsabile della cosiddetta crisi del maschio, o del suo spiazzamento, ma anzi come movimento per lui salvifico: occasione di liberazione dalla maschera patriarcale per indagare finalmente le peculiarità del maschio, marito, padre, al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni. Si noti in proposito come sia stato lo stesso Papa Bergoglio, il 2 marzo 2018, in una lettera indirizzata alla scrittrice spagnola María Teresa Compte Grau – autrice del libro “Diez cosas que el papa Francisco propone a las mujeres” – a sollecitare esplicitamente una rinnovata ricerca antropologica che includa i nuovi progressi della scienza e delle attuali sensibilità culturali per andare sempre più a fondo non solo nell’identità femminile, ma anche in quella maschile, per servire così meglio l’essere umano nel suo insieme. È utile accennare, solo di passaggio, come appaia probabile che il percorso di ricerca auspicato dal Pontefice argentino potrebbe contribuire, al di là dell’ambito vocazionale matrimoniale, anche a una rinnovata comprensione delle figure maschili del religioso e del sacerdote, soprattutto alla luce della crisi che le ha investite negli ultimi decenni con l’esplosione dello scandalo degli abusi sessuali su minori commessi da membri del clero.

  1. Sposi immagine di Dio creatore, nelle loro differenze sessuali

La sorgente dell’amore coniugale per l’Humanae vitae è Dio amore: Deus Caritas. Il matrimonio, afferma il numero 8 del documento, è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. In questa prospettiva, gli sposi sono collaboratori di Dio nella «generazione e educazione di nuove vite». A questo paragrafo dell’enciclica di Paolo VI si potrebbe accostare proficuamente un’altra, successiva, definizione della differenza sessuale, e dunque della capacità generativa degli sposi, come realtà che porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio. Partendo da Genesi 1, 26-27 sulla scorta di un documento pubblicato trent’anni dopo, la Mulieris dignitatem di San Giovanni Paolo II, si può non solo affermare che la sorgente dell’amore coniugale è Dio caritas, ma che nella coppia di sposi – «maschio e femmina li creò» – nell’«unità dei due», come la chiama Papa Wojtyla – è rispecchiata, per «somiglianza», la comunione d’amore che è in Dio. Di più, scorrendo la Lettera apostolica del 1998, apprendiamo che «paternità» e «maternità» umane, portano in sé la somiglianza con il «generare» divino e con quella «paternità» – si noti bene per Wojtyla «spirituale» e niente affatto «maschile» – che è in Dio. Rovesciando il ragionamento, si può dunque giungere ad affermare che l’immagine più piena di Dio creatore è costituita dall’uomo e dalla donna uniti nella loro capacità generativa o, addirittura, che l’immagine di Dio è stampata in loro proprio nella loro capacità generativa. Come ricordava Papa Francesco nell’Udienza generale del 15 aprile 2015, è perciò la «differenza sessuale» stessa a essere immagine di Dio, e allo stesso tempo, solo nella loro relazione reciproca uomo e donna possono comprendere fino in fondo cosa significa la loro specifica sessualità. Si capisce quindi come una messa a punto rinnovata delle questioni di genere, una ricomprensione del maschile e del femminile, anche dal punto di vista teologico, sia cruciale per approfondire oggi – sulla scia dell’Humane Vitae – l’idea di “paternità”, o forse meglio “genitorialità”, responsabile dal punto di vista cristiano. Voglio dire come, al di là del tema fulcro dell’enciclica di Papa Montini – la regolazione artificiale delle nascite – ci siano nella genitorialità vissuta evangelicamente – e dunque a immagine di Dio e della Sacra famiglia – aspetti che chiamano in causa le differenze sessuali e si prestano a interessanti ridefinizioni. Si vedano in proposito, nel capitolo quinto dell’Amoris laetitia di Papa Francesco, dedicato proprio alla fecondità, i numeri dal 172 al 177. Qui, a partire dalla riaffermazione del diritto del bambino ad avere un padre e una madre, si prova a descrivere, e a distinguere tra loro, l’«amore di madre» e quello «di padre», soffermandosi sulle peculiarità affettive e educative dei due sessi. Il testo registra l’attuale difficoltà che si riscontra nel ritrovare nella vita quotidiana dei genitori certe specificità materne e paterne, culturalmente radicate, ed evoca il rischio di una società senza più né madri, né padri. Sembra anche qui, dunque, opportuno ridare un’immagine più nitida al maschio-padre all’interno della relazione e della comunione tra gli sposi cristiani, insieme immagine di Dio creatore nella loro fecondità responsabile.

  1. Sposo e sposa, Cristo e la Chiesa

Se l’origine divina della capacità generativa, e quindi della differenza sessuale vissuta nella reciprocità, non sembra ancora messa a fuoco nell’Humanae vitae, nel paragrafo 25, dedicato alle direttive pastorali per gli sposi cristiani, troviamo invece la citazione paolina di Efesini 5 che ridisegna il rapporto tra marito e moglie sull’immagine di quello tra Cristo e la Chiesa. Paolo VI, nello spirito dell’Apostolo delle genti da cui prende il nome, insiste più sui doveri dei mariti che devono amare le loro mogli come il proprio corpo e diremo con Paolo essere pronti a dare la loro vita per loro. Colpisce, invece, l’assenza nell’enciclica di cinquant’anni fa del famigerato versetto 22 del testo paolino – ­ le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore – ben spiegato da San Giovanni Paolo II al numero 24 della Mulieris dignitatem per liberarlo da letture patriarcali semitiche e greco-romane e chiarire la reciprocità della sottomissione nel matrimonio come dono. Un’esegesi ripresa recentemente dal numero 156 della stessa Amoris laetitia di Papa Francesco ma ancora oggi frutto di fraintendimenti nella pubblicistica cattolica. Mi riferisco a letture attuali[4] secondo le quali compito della sposa cristiana sia quello di lasciare che l’uomo possa fare l’uomo, che ripropongono cliché machisti limitanti e vuoti non tanto per le donne, ma proprio per i maschi stessi. Ebbene, cinquant’anni fa, l’Humanae vitae già sembrava evitare profeticamente questo percorso.

  1. Francesco critica il gender ma denuncia gli stereotipi di genere

L’Enciclica di Paolo VI però, non può, come si è detto, per natura, contesto storico e per gli obiettivi che si prescrive, andare oltre la presa di coscienza del mutamento – cui si assiste – del modo di considerare la persona della donna e il suo posto nella società. Oggi, invece, nel magistero di Papa Francesco, accanto alla decisa, inequivocabile e ripetuta denuncia dell’ideologia del gender che, attraverso una vera e propria “colonizzazione ideologica”, pretende di annullare le differenze sessuali, cancellare una distinzione naturale per affidarla alla libera scelta, troviamo numerose affermazioni che denunciano implicitamente i danni culturali e sociali degli stereotipi di genere nelle relazioni tra uomo e donna[5]. Entrambi i fenomeni, teoria del gender e stereotipi di genere, sembrano, tra l’altro, legati alla stessa difficoltà culturale a confrontarsi con la differenza sessuale.

Il Papa segnala, più volte, forme di maschilismo, eccessi delle culture patriarcali, prevaricazione, disparità di stipendio, violenze domestiche. Al numero 104 dell’Evangelii gaudium – testo del 2013 considerato il suo documento programmatico – chiede la presenza delle donne laddove si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa. Ancora, parla di sfide importanti, ineludibili che la rivendicazione dei legittimi diritti delle donne pone alla Chiesa. Al numero 54 dell’Amoris laetitia, la sua successiva Esortazione apostolica datata 2016, Papa Francesco denuncia letteralmente gli eccessi delle culture patriarcali, dove la donna era considerata di seconda classe. Si spinge a definire «una falsità», o meglio «una forma di maschilismo», l’affermazione secondo cui molti problemi attuali si sono verificati a partire dall’emancipazione della donna. Francesco si rallegra che in seno alle famiglie si sviluppi uno stile di reciprocità e nonostante definisca non adeguate alcune «forme di femminismo», arriva a considerare il riconoscimento più chiaro della dignità della donna e dei suoi diritti «opera dello Spirito». Ma già nel 2014, parlando ai partecipanti a un convegno organizzato dalla Congregazione per la dottrina della fede, il Papa, soffermandosi sulla “complementarietà” tra uomo e donna, era giunto addirittura a condannare l’idea semplicistica che tutti i ruoli e le relazioni di entrambi i sessi sono rinchiusi in un modello unico e statico e chiedeva di aprirsi all’inedito della differenza e cioè alla ricchezza e alla bellezza di una complementarietà diversa per ogni coppia di sposi. Più volte, in altre occasioni, come nella sopra citata lettera a Maria Teresa Compte Grau, Francesco denuncia come nella Chiesa il servizio, a cui ciascuno è chiamato, per le donne, si trasformi a volte in servitù. Chiede nuovi spazi per la donna nella teologia e nella vita della Chiesa e afferma provocatoriamente in numerose occasioni, come al raduno mondiale dei sacerdoti a Roma, il 12 giugno 2015, che non è femminismo affermare che la Madonna è più importante degli apostoli. Si tratta di un corpus di pronunciamenti, non ancora sistematizzato da Papa Francesco in un unico testo, che sembra allontanarsi dal pregiudizio culturale, ancora assai diffuso in ambito cattolico, secondo cui la donna sbaglierebbe a cercare di ribellarsi al suo destino stabilito da sempre – la sua vocazione a essere sposa e madre – cercando la sua realizzazione la dove non potrà mai trovarla. La direzione scelta, lungi dal voler abolire le differenze sessuali, su cui anzi Francesco insiste, sembra privilegiare, appunto, un rinnovamento delle identità di genere e al contempo un’apertura rispetto alla creatività e alla fantasia, dettate dallo Spirito, che rendono unica e irripetibile ogni esistenza e quindi ogni coppia di sposi.

  1. Lavoro e società: doveri e diritti dei genitori cristiani

A proposito delle ripetute denunce di Papa Francesco delle discriminazioni subite soprattutto dalle donne sul lavoro, si noti, di passaggio, quanto sarebbe interessante rileggere le direttive morali dell’Humanae vitae circa la responsabilità genitoriale alla luce della sua aperta condanna delle ingiustizie patite in particolare dalle donne in gravidanza: come la penalizzazione della maternità e la disparità di stipendio. Si veda ad esempio il Messaggio del Pontefice ai partecipanti al convegno «Donne e lavoro», datato 4 dicembre 2015, in cui si parla esplicitamente della necessità di valorizzare il lavoro femminile e di permettere alla donna di coniugare tempi lavorativi e familiari. È un aspetto che rivela come certo maschilismo, denunciato da Francesco, abbia radici economiche e culturali che hanno pesanti conseguenze sull’esercizio dei compiti dei genitori. Quest’ultime riducono la maternità a un ruolo sociale non modificabile e, al contempo, escludono l’uomo da compiti come allevamento e presa in cura dei figli che nessuna norma biologica gli preclude. E se nel 1968 Paolo VI parlava opportunamente dei doveri dei coniugi, verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, sarebbe interessante riflettere sui diritti che gli stessi coniugi, o meglio gli stessi genitori, potrebbero rivendicare nei confronti della società, e chiedersi quali conseguenze derivino dalla differenza sessuale, per esempio, in ambito lavorativo. Si pensi, appunto, alla tutela delle lavoratrici in gravidanza o alle norme sul congedo parentale anche per i padri.

  1. L’idea di una nuova maschilità e paternità

Ma la vera novità del magistero pontificio più recente sembra essere la proposta di un’idea di paternità e maschilità nuove e diverse. E dunque l’indicazione di una prospettiva inedita per incarnare la responsabilità genitoriale rimarcata dall’Humanae vitae. È un’idea che si ritrova, ad esempio, in uno dei classici “tormentoni” che il Papa ripropone quando si parla del rapporto fra genitori e figli: la richiesta di una maggiore presenza del padre in famiglia, affinché giochi, cioè “perda tempo” con i figli. Un uomo, una persona adulta, un sacerdote – ha detto Francesco incontrando il «Forum delle Associazioni familiari» il 16 giugno 2018 – è maturo se è capace di giocare con i bambini. Per il Papa, un padre che va al lavoro mentre i figli ancora dormono, e torna a casa quando sono già addormentati, è vittima di una schiavitù, di un modo ingiusto di lavorare creato dalla società di oggi. Si tratta di una bella spallata a un modello di pater familias centrato esclusivamente sul mantenimento del nucleo familiare che lascia necessariamente ad altri, alla madre in primis, l’incombenza dell’educazione e dell’intrattenimento dei pargoli. Ma è più in generale l’insistenza degli insegnamenti di Papa Bergoglio su attitudini evangeliche come la capacità di pregare, aspettare, pazientare, su virtù cristiane come la tenerezza, la mitezza, la magnanimità, l’umiltà e la misericordia che spiazzano un’ermeneutica – in senso stereotipato – “virile” del cristianesimo. Virtù cosiddette «passive», affermava il Papa nell’omelia a Casa Santa Marta del 21 maggio 2018, ma che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme».

Francesco appare consapevole che non esista un essere umano generico, ma piuttosto esistano uomini e donne, con le loro differenze sessuali, che devono ritrovare una nuova «alleanza», significativamente definita «strategica» per «l’emancipazione dei popoli dalla colonizzazione del denaro» (Udienza generale del 16.09.15). Ma tutto ciò significa anche che il maschile è solo una parte dell’umano. E nel pensiero del Pontefice le sopracitate differenze non sono fatte per contrapporre o subordinare ma per creare comunione e generazione. E ciò che Francesco intende quando ripete che la più grande sfida per un uomo è «fare più donna sua moglie» e la più grande sfida per una donna è «fare più uomo suo marito». Solo in una relazione incarnata virtuosa, cioè, è possibile marcare reciprocamente e profondamente le differenze sessuali.

Ma soprattutto il Pontefice argentino ha intuito che c’è un processo di liberazione che riguarda il maschio e che deve puntare a dare una nuova veste al “genio maschile”. È una pista che nasce da un’esegesi neotestamentaria che vede in Gesù un modello di uomo che non basa la sua autorevolezza sul potere, o sulla forza, ma sull’ascolto, il silenzio e l’obbedienza. Un messia che – come notava Antonella Lumini in un dibattito sul ruolo della donna, sull’Osservatore Romano del 1° dicembre 2014 – ribalta gli schemi del dominio patriarcale, e porta alla luce un principio maschile positivo.

Francesco dimostra quest’orientamento nel capitolo settimo dell’Amoris laetitia, dedicato all’educazione dei figli, quando al numero 286 invoca un nuovo modo di essere maschile che permetta all’uomo di adattarsi con flessibilità alla condizione lavorativa della moglie. Addirittura parla della necessità di aiutare i bambini ad accettare come normali questi “sani interscambi”, che non tolgono alcuna dignità alla figura paterna, mettendo il dito sulla piaga di una cultura che svaluta il ruolo del padre nella presa in carico concreta e quotidiana dei figli. Il maschile e il femminile, spiega qui il Papa, non sono qualcosa di rigido. Ed è la rigidità, come esagerazione del maschile o del femminile, che – nella sua visione – allontana da quella reciprocità incarnata nelle condizioni reali del matrimonio. Insomma, per Papa Bergoglio, anche in questo caso, la realtà è superiore all’idea (Evangelii gaudium, 231).

Sono riflessioni generate dalla consapevolezza che una cultura abituata a considerare il maschile come “la regola” e il femminile come “la differenza”, non si è mai paradossalmente occupata di capire il maschile in tutta le sue possibilità[6], intrappolandolo nella macchietta del pater familias dominatore, padrone, guerriero, ormai stantia. E sono spunti che offrono la possibilità di superare la crisi della cosiddetta “assenza del padre” – denunciata, come già ricordato, anche dall’Amoris laetitia – o quella legata alla violenza di genere e al diffondersi dei fenomeni di “femminicidio”.

In questo senso, anche gran parte delle resistenze al magistero di Francesco si possono leggere come reviviscenza di quello che lui stesso definisce «machismo» anche nell’attuale cultura ecclesiale e in genere cattolica. La Lettera apostolica Misericordia et misera del 20 novembre 2016, che chiudeva l’Anno Santo della misericordia, proponeva – non a caso – come icone del Giubileo appena vissuto, due donne evangeliche – l’adultera di Giovanni 8 e la peccatrice di Luca 7 – viste in contrapposizione con i dottori della legge, i lapidatori e il fariseo: modelli maschili incapaci di comprendere la misericordia di Dio. Non è difficile ritrovare questa difficoltà a concepire e accogliere la radicalità evangelica, fondata sul perdono e l’accoglienza, più che sulla condanna e l’esclusione, nei principali detrattori del pontificato di Francesco.

  1. San Giuseppe, padre putativo: archetipo rivoluzionario

La conferma di quest’ermeneutica del magistero di Papa Bergoglio ha un nome. È quello di un Santo che rappresenta per lui il modello della paternità responsabile nella Chiesa di oggi e l’icona più efficace per rilanciarlo. È Giuseppe, lo sposo di Maria, il falegname di Nazareth, il santo più caro a Francesco che – come ha rivelato lui stesso a Manila, il 16 gennaio 2015 – tiene nella sua camera a Casa Santa Marta una statuetta di un San Giuseppe “dormiente” a cui affida, sotto forma di biglietti, intenzioni e richieste di grazie. Nell’udienza ai dirigenti e al personale del quotidiano Avvenire, il 1° maggio 2018, Francesco lo descrive come «l’uomo del silenzio», «dell’ascolto», «l’uomo che sa destarsi e alzarsi nella notte». Ancora, «l’uomo giusto», «il custode discreto e premuroso», l’educatore che – senza pretendere nulla per sé – diventa padre grazie al suo esserci, alla sua capacità di accompagnare, di far crescere la vita e trasmettere un lavoro. E questo ruolo esemplare di Giuseppe come educatore era stato rimarcato dal Papa già durante l’Udienza generale del 19 marzo 2014, quando aveva affermato che egli è modello per ogni educatore, in particolare per ogni padre, invitando poi i papà presenti in piazza, nel giorno della loro festa, a essere sempre vicini ai figli: loro hanno bisogno di voi, della vostra presenza, della vostra vicinanza, del vostro amore. E sottolineando che solo nella vicinanza, camminando con i propri figli, si può essere per loro veri educatori. Sono descrizioni e moniti che vanno a disegnare una figura paterna nuova, particolare, centrata sulle responsabilità verso i figli, sul loro accompagnamento nella crescita, più che sul ruolo sociale e nel mondo del lavoro dello stesso genitore.

Un passo ulteriore nella direzione dell’esemplarità di San Giuseppe come nuovo modello di padre evangelico lo compie Antonella Lumini in un articolo apparso sull’Osservatore Romano il 21 marzo 2018, dedicato, appunto, al «padre putativo di Gesù». Anche qui si ricordano significativamente le attitudini diremo materne di Giuseppe: attento, presente, mite. Si prende cura, protegge, custodisce, accompagna, enumerando virtù non certo tradizionalmente maschili come l’obbedienza, la pazienza, l’umiltà, il silenzio. Ma, per l’autrice, l’aspetto che fa compiere a Giuseppe un vero «salto di qualità», trasformandolo nello strumento attraverso cui prende origine la nuova umanità che inizia con Gesù, è l’aver accettato il ruolo di «padre putativo». Così facendo, egli rompe uno schema ancestrale: dà un colpo definitivo alla struttura della famiglia patriarcale fondata sul potere del pater, considerato proprietario dei familiari in base al legame di sangue. Per di più – seguendo il ragionamento della Lumini – Giuseppe è un padre putativo che con Maria «vergine» crea un modello familiare inedito, in cui i legami spirituali si sostituiscono a quelli carnali, non per svilire questi ultimi ma per aprire all’immagine di una famiglia in cui ci siano relazioni d’amore liberate da ogni vincolo e valorizzare la genitorialità spirituale. Giuseppe si trasforma così da antica icona a un modello evangelico vivo e attuale di una figura paterna rivoluzionaria che ribalta le convenzioni familiari e chiama i padri di oggi a un compito nuovo, forse più impegnativo rispetto al passato, ma senz’altro più umanamente e cristianamente gratificante.

  1. Conclusioni: un nuovo inizio

Il breve itinerario sin qui accennato ha lasciato intravedere i possibili sviluppi del concetto di responsabilità genitoriale degli sposi cristiani, tra i tesori dell’Humanae vitae di Paolo VI, sul fronte del rinnovamento delle identità di genere e quindi dei ruoli della madre e del padre in ambito familiare e sociale, come riflesso della maternità e paternità di Dio. Tutto ciò sulla scia del magistero pontificio più recente in materia, che – pur essendo aperto alle sorprese dello Spirito – stabilisce come principi inderogabili la condanna sia di ogni tentativo di neutralizzazione delle differenze sessuali, come di ogni standardizzazione delle stesse. Ma, soprattutto, la convinzione che il creato e la storia siano stati affidati dal Padre all’alleanza tra l’uomo e la donna, chiamati non soltanto a parlarsi d’amore, ma a parlarsi, con amore, di ciò che devono fare perché la convivenza umana si realizzi nella luce dell’amore di Dio per ogni creatura (Udienza alla Pontificia accademia per la vita, 5 ottobre 2017). Anche la sfida della rinascita della figura paterna, evocata dagli insegnamenti di Papa Bergoglio, sembra inserirsi in quello che lui stesso ha definito «un nuovo inizio» che «dev’essere scritto nell’ethos dei popoli» proprio attraverso una «rinnovata cultura dell’identità e della differenza».

Come ha insegnato l’Amoris laetitia, uno dei rischi da evitare, nella ridefinizione del ruolo dei genitori, è quello di cadere in nuovi astratti stereotipi che ignorino la concretezza della vita familiare. La strada sembra essere perciò quella di discernere, di volta in volta, come la verità evangelica s’incarni materialmente nell’esperienza quotidiana di ogni relazione coniugale e genitoriale, nello spirito ecclesiale indicato al numero 169 dell’Evangelii gaudium: tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro.

[1] G. Marengo, La nascita di un’enciclica. Humanae vitae alla luce degli archivi vaticani, Lev, Roma 2018

[2] L. Moia, Il metodo per amare. Un’inchiesta. L’Humanae Vitae 50 anni dopo, San Paolo, Milano 2018

[3] R. Torti, voce: “Genere”, in Vocabolario di Papa Francesco, a cura di A. Carriero, Elledici, Torino 2015

[4] C. Miriano, Sposati e sii sottomessa. Pratica estrema per donne senza paura, Sonzogno, Milano 2013

[5] R. Torti, Op. cit.

 

[6] R. Torti, Mamma, perché Dio è maschio? Educazione e differenze di genere, Effatà, Roma 2013, pp. 37-39

Articolo scritto per il volume”La famiglia a cinquant’anni da «Humanae vitae». Attualità e riflessione etica”, edizioni Studium 2019

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“Umorismo, ironia e comunicazione cattolica”

“Beati quelli che sanno ridere di se stessi, perché non finiranno mai di divertirsi”. Questa citazione di una beatitudine evangelica riveduta e corretta, attribuita a San Tommaso Moro, riassume bene il senso del presente intervento nel contesto di un incontro dedicato alla comunicazione cattolica. Thomas More ci ricorda che la capacità di non prendersi sul serio è la via per la perfezione spirituale e dunque per la felicità.

Qui, si vuole ribadire che l’umorismo, al contrario della serietà, è una virtù cristiana. Ma si vuole anche mostrare come – in un mondo digitalmente interconnesso, caratterizzato da aggressività, conflitti che si radicalizzano e dispute infelici – il sorriso, l’umorismo e l’autoironia costituiscano i primi strumenti per moderare, spegnere i contrasti sterili, avviare un dialogo e un incontro fecondo: testimoniare la vera gioia. Quella gioia che secondo G.K. Chesterton è il vero segreto del cristiano.

Tutto ciò appare drammaticamente urgente soprattutto nell’odierno contesto cattolico in cui siamo chiamati dal Magistero a evitare chiusure, mondanità spirituali, clericalismo e autoreferenzialità per aprirci alle sorprese dello Spirito e  quindi all’umorismo di Dio. E siamo spronati, dallo stesso Papa Francesco, a essere “amabili” (Amoris Laetitia 99), a guarire dalla malattia della “faccia funerea” e a recitare ogni giorno la Preghiera del Buonumore di S. Tommaso Moro.   

Insisto su questi aspetti – apparentemente secondari – poiché convinto, sulla base di una pluridecennale esperienza giornalistica in ambito cattolico, che l’incapacità di assumere un linguaggio affabile, umoristico e autoironico sia – a cinquant’anni dal Concilio – il sintomo più evidente della persistente immaturità della comunicazione ecclesiale. Quest’ultima è di fatto spesso rigida, seriosa, conformista, avvolta su se stessa, timorosa di rischiare, in una parola: noiosa. Forse, proprio perché poco incarnata e troppo astratta, a causa dell’equivoco – persistente in certi ambiti cattolici – generato dall’errata separazione tra materia e spirito, corpo e anima, forma e contenuto. Oggi sappiamo che il mezzo è il messaggio, e dunque il cristiano – come ha sottolineato Carlo De Marchi – ha l’obbligo evangelico dell’affabilità e si riconosce in rete – come ha ricordato Benedetto XVI – non dai suoi contenuti ma dal suo stile. Il sano umorismo è un dono dello Spirito Santo.

Che senso ha parlare di umorismo in un contesto comunicativo?

La ‘gelotologia’, scienza che studia il riso e le sue applicazioni terapeutiche, sostiene che quest’ultimo sia la forma più antica di comunicazione, una sorta di esperanto verbale. I nostri antenati ridevano prima di cominciare a parlare. In breve: chi sa far ridere è in grado di comunicare. Dunque, chi non sa far ridere – volontariamente –  non sa comunicare. “Una Chiesa capace di umorismo – ha affermato  Madre Ignazia Angelini, badessa del monastero benedettino di Viboldone è balsamo benefico per questo occidente triste e malinconico, ammalato di narcisismo” (L’Osservatore Romano, maggio 2015).

Cos’è l’umorismo o sense of humour?

Secondo la definizione di Giampaolo Salvini, nell’articolo ‘L’umorismo di Dio’, apparso sul quaderno 4007 de La Civiltà Cattolica, l’umorismo è “la capacità di cogliere i lati buffi o contraddittori della vita, ridendone con benevola comprensione. E’ uno sguardo superiore che consente di vedere meglio e oltre, un’intelligenza nuova che relativizza e ridimensiona quanto si vorrebbe prendere per assoluto ed eccelso”.

Un’intelligenza nuova

In sintesi, si può affermare che l’umorista – quasi come i profeti – vede qualcosa che altri non vedono. Sa prendere le distanze dalla realtà perché vi scorge un’altra dimensione, quella che Pirandello chiamava il “sentimento del contrario”. Da qui la connessione tra umorismo, creatività, arte e genialità. Ma anche il legame a un tema caro a Papa Francesco: la capacità e il coraggio di avviare processi, senza conoscerne l’esito. Dunque umorismo come invito alla fiducia e all’audacia. A un monsignore che gli disse che non era  possibile che il Concilio fosse pronto nel 1963 S. Giovanni XXIII replicò: “Benissimo, lo faremo nel 1962”. L’umorismo è un cammino verso una scoperta creativa, con il quale si abbandonano attese e previsioni già precostituite. Significa godere dell’inaspettato, di ciò che sorprende la nostra razionalità. Ha scritto lo psicologo gesuita Hans Zollner che “il senso di inattesa che emerge dal non senso di una barzelletta è come un vino nuovo che fa scoppiare gli otri vecchi”.

L’umorismo è ridere nonostante tutto

Ma l’umorismo aiuta anche a dominare il dolore. “Al colmo della sofferenza guardami ogni tanto con humour onde sfuggire al veleno che essa distilla”, ha scritto Henri de Lubac. Aiuta a affrontare la vita relativizzandola coraggiosamente, a prendere le distanze, nella certezza che la libertà alla fine prevale e gli ostacoli si rivelano ridicoli. Qui c’è la forte connessione tra umorismo e vita cristiana. Sia per il cristiano che per il comico nulla di ciò che è terreno va preso sul serio. E ancora, praticare l’umorismo, o meglio l’autoironia, significa percepire le proprie incongruenze o assurdità, mettere a fuoco la propria immaturità. “La storia di tante eresie – ha scritto Ferdinando Castelli – è la storia della perdita del senso dell’umorismo”. Umorismo significa perciò demitizzare se stessi e gli altri, amare il mondo nonostante le sue imperfezioni, anzi proprio per queste. “L’umorismo – secondo il gesuita Ladislaus Boros – vede come tutto ciò che è terreno sia imperfetto. Tuttavia questa rassegnazione è elevata dal fatto che tutto quello che è finito è circondato dalla grazia di Dio”. L’umorismo cristiano, in conclusione,  non nasconde le nostre debolezze ma ce le fa vedere con lo sguardo del Signore. Pensiamo a Gesù che sorride di fronte all’eccessiva sicurezza di Pietro, certo che non avrebbe rinnegato il suo Maestro. E immaginiamo che lo stesso discepolo, predecessore di tutti i Pontefici, dopo la Resurrezione di Cristo, abbia riso di se stesso.

Da ciò consegue che una comunicazione priva di autoironia manca di ‘intelligenza nuova’ e creatività; è priva di senso autocritico e di umiltà (humilitas), virtù che – come nota Andrea Monda – è legata anche etimologicamente all’umorismo (da humus: terra) e quindi alla ‘humanitas’.

“I cristiani sono oggi d’un serio che sfiora la costipazione”, ha scritto  Edmond Prochain, su L’Osservatore Romano nel febbraio 2016. “Non solo non osiamo più ridere veramente di noi stessi, ma (ed è una conseguenza) accettiamo sempre meno che altri lo facciano al posto nostro. (…) Per i cristiani c’è un urgenza reale di sbloccarsi nel loro rapporto con se stessi, di riacquistare la capacità di accettare la critica, anzi di precederla, soprattutto quando è giustificata”.

E’ umorista Dio? Cristo ha senso dell’umorismo?

“Ride colui che sta nei cieli,/ il Signore si fa beffe di loro”, recita il Salmo 2 e il Dio creatore è stato descritto come un ‘Deus ludens’, un Dio che gioca. “Come non considerare umorista il creatore dell’ornitorinco, del cammello, dello struzzo e dell’uomo?” ha scritto nel 1950 Ray Bradbury, nel classico di fantascienza ‘Cronache marziane’. Se la base dell’umorismo è infatti la legge del contrasto, dell’accostamento dei contrari, Dio è maestro insuperabile. “Quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti…” , recita la prima Lettera ai Corinzi. (1 Cor 1-27) E’ vero che Gesù nel Vangelo non ride mai, e questo sicuramente non perché – com’è stato scritto – essendo Dio sapeva già come andassero a finire le barzellette. Ma nell’episodio evangelico della donna adultera c’è da parte di Cristo una sorta di gesto umoristico, di capovolgimento ironico, quando risponde alla provocazione di scribi e  farisei con l’affermazione: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. Una frase – ha affermato Catherine Aubin su L’Osservatore Romano, nel maggio 2015 – che rimanda l’altro a ciò che è, senza condannarlo, ma mirando proprio al punto giusto”. E non sono rari gli episodi del Vangelo in cui si verifica questo benefico spiazzamento dell’interlocutore a opera del Salvatore.

I santi e l’umorismo

“Signore, non ti fidare di me! Oggi potrei tradirti”, pregava San Filippo Neri. “Non si è mai sentito di un santo triste o di una santa con la faccia funebre. Mai si è sentito questo! Sarebbe un controsenso” ha affermato Papa Francesco all’Angelus del 14 dicembre 2014. I santi sembrano avere senso dell’umorismo proprio perché consapevoli di quanto tutto sia relativo rispetto a Dio.

La Chiesa teme l’umorismo?

“Le persone mediamente più religiose e tendenzialmente fondamentaliste tendono a evitare lo humour che nella sua carica trasgressiva mina il senso di sicurezza e la serietà della vita associata ed ecclesiale”, ha scritto lo psicologo della religione Vassilis Saoroglou. E il tema è ripreso da Umberto Eco nel romanzo  “Il nome della rosa” dove si immagina che alcuni uomini di Chiesa temano, come fosse opera del diavolo, il fantomatico secondo libro della ‘Poetica’ di Aristotele, dedicato appunto alla Commedia. Questo perché, in quel contesto letterario, il riso è l’unico sortilegio che può annullare quella paura su cui si basa il potere della Chiesa. Quindi, nel mondo reale, una Chiesa fondata sull’architrave della misericordia e non del timore non può temere il sorriso.

Francesco e Benedetto, i papi del sorriso

“Un qualche scrittore aveva detto che gli angeli possono volare perché non si prendono troppo sul serio. E noi forse potremmo anche volare un po’ di più, se non ci dessimo tanta importanza”, ha affermato Papa Benedetto XVI nel settembre 2006, nel corso di un’intervista . Si tratta di una citazione da ‘Ortodossia’ di G. K. Chesterton, dove lo scrittore inglese afferma: “È facile esser pesanti, difficile esser leggeri. Satana è caduto per la forza di gravità”. Nel libro intervista ‘Il sale della terra’  Benedetto XVI afferma inoltre che “la fede rende l’uomo più leggero (…) Possiamo volare perché non siamo più un peso a noi stessi, perché non ci prendiamo più drammaticamente sul serio”. Nella sua visione, fede e umorismo ci rendono più leggeri perché aiutano ad annullare il nostro pesante ‘io’.

“La severità teatrale e il pessimismo sterile sono spesso sintomi di paura e di insicurezza di sé”, ha affermato più recentemente Papa Francesco parlando alla Curia Romana nel dicembre 2014. “Non perdiamo quello spirito gioioso, pieno di humor, e persino autoironico, che ci rende persone amabili, anche nelle situazioni difficili. Quanto bene ci fa una buona dose di sano umorismo!”.

In conclusione, se Dio ha il senso dell’umorismo, i mistici celano una vena umoristica, la Chiesa non ha ragioni per temere il riso, i Papi ci invitano a praticare affabilità, leggerezza, umorismo e autoironia, dobbiamo interrogarci sull’incapacità che contraddistingue i cattolici di praticare questa virtù in ambito comunicativo.

Altrimenti rischiamo di finire come quel monsignore che, dopo aver rilasciato un’intervista dai toni entusiastici sulla scelta del Papa di aprire il suo account twitter, sottolineando la necessità ineludibile che la Chiesa sia presente in quest’ambiente digitale per annunciare il Vangelo soprattutto ai giovani e affermando che internet è un dono di Dio e i social le nuova agorà dove dobbiamo essere per forza presenti, alla fine del colloquio si sentì domandare dall’irriverente cronista: “Ma Eccellenza, quindi anche lei è su Twitter?”. “Io? Nooo… – rispose lo sventurato – non perdo tempo con queste diavolerie…”.  Ecco, cerchiamo di essere autoironici prima di diventare involontariamente comici perché – come ha scritto l’arcivescovo Fulton John Sheen, celebre predicatore statunitense –  “può ben darsi che nel giorno del giudizio universale il Signore conceda una grazia speciale a coloro che non hanno sopravvalutato né se stessi né il mondo, a coloro, insomma, che hanno il divino sense of humour. A loro Egli offrirà il suo sorriso”.

“Beati voi che ora piangete, perché riderete”. (Luca 6)

Fabio Colagrande

Questa relazione è la trascrizione di un mio intervento dal titolo “Umorismo, ironia e comunicazione cattolica” al  “Quarto meeting nazionale giornalisti cattolici e non” di Grottammare, giugno 2017. Il testo è apparso nel  volume “#connessi. I media siamo di noi”, curato da Giovanni Tridente e Bruno Mastroianni, edito da “Edusc” con il titolo “La via dell’ironia per una comunicazione pienamente umana”.

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Chiesa: a Roma, il 10 febbraio, una giornata dedicata al “silenzio”

All’incontro, presso la Casa del Sacro Costato, partecipano tra gli altri Antonella Lumini, Marco Guzzi e don Paolo Scquizzato #rompereilsilenziosulsilenzio

Il 10 febbraio a Roma si svolgerà un incontro per rompere il silenzio sul silenzio. Persone provenienti da varie parti d’Italia, con in comune l’appartenenza alla Chiesa cattolica e la passione per la preghiera interiore, si ritroveranno per una giornata dedicata alla conoscenza reciproca, al confronto e all’elaborazione di comuni progetti futuri. L’idea nasce dalla consapevolezza che la sete di silenzio sia oggi sempre più diffusa e dalla costatazione che, in Italia, siano ormai numerose le realtà cattoliche che praticano vie di meditazione e preghiera interiore. Ma anche, e soprattutto, dall’osservazione che oggi, in ambito ecclesiale, la via del silenzio sia andata quasi scomparendo e la Chiesa fatichi a dare risposte a chi è in cerca di questa dimensione per ritrovare Dio.

Alla giornata, che si svolgerà presso la casa di Esercizi Spirituali del Sacro Costato a Roma, nel quartiere Borgata Ottavia, fra le 8.30 e le 17.30, hanno aderito: Antonella Lumini, eremita di città a Firenze e autrice con Paolo Rodari del libro ‘La custode del silenzio’, pubblicato da Einaudi; don Paolo Scquizzato, sacerdote del Cottolengo e direttore del Centro di spiritualità ‘Mater Unitatis’ di Druento, vicino Torino; Marco Guzzi, poeta e filosofo, fondatore dei gruppi di formazione spirituale “Darsi pace”;  Juri Nervo,  fondatore della Onlus EssereUmani e dell’Eremo del Silenzio di Torino; Chiara M. già infermiera a Trento, oggi scrittrice, autrice dei libri ‘Crudele dolcissimo amore’ (2009), ‘Oscura luminosissima notte’ (2010) e – insieme a Juri Nervo – ‘La cella e il silenzio’ (2017).

L’incontro, che sarà aperto e chiuso da due momenti di preghiera comune silenziosa, avrà carattere privato, ma è aperto a amici e osservatori e a un gruppo di giornalisti. Fin dall’inizio di gennaio, il Blog VinoNuovo.it ha ospitato e continua ad ospitare alcuni contributi dei partecipanti all’incontro per presentarlo e suscitare riflessioni e commenti e riguardo.

http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=2896

http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&art=2905

Per informazioni, Fabio Colagrande  328 94 93 458  fcolagrande@yahoo.it

http://www.sacrocostato.org/dove_siamo/italia/roma_ottavia_esercizi/roma_ottavia_esercizi.php

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Parole per una canzone da scrivere

Sono andato a lezione di salsa / e ho imparato a fare il ragù

Sono andato a lezione di rumba / sperando ci fossi anche tu

Sono andato a lezione di judo / e ti judo non ci andrò mai più

Sono andato a lezione di yoga / ma la pera mi è tornata su

 

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#burocraziadigitale

“In conformità con l’applicazione del rinnovamento dei nostri uffici e l’ormai improcrastinabile digitalizzazione delle procedure amministrative necessaria per snellire il lavoro, per ricevere lo stipendio, da domani, i dipendenti dovranno fare domanda (dal martedì al giovedì 15.30 – 17.30 presso l’Ufficio complicanze e burocrazie inutili) per registrarsi sulla piattaforma digitale ARXTV e digitare il proprio identificativo e la password accluse a questa comunicazione, nella sezione KGGU (non mi raccomando in quella FUJGGH), allegando anche copia del modulo PPHHU. Una volta entrati nel sistema dovranno scaricare il modulo RTDIB, compilarlo e inviarlo all’indirizzo complicazionen@spdbee.com. Riceveranno una mail che contiene un codice che devono comunicare telefonicamente al numero 0347/548957, chiamando solo il giovedì e il venerdì fra le 8.30 e le 10.15. A quel punto, se non troveranno occupato, risponderà un impiegato che porrà al dipendente la domanda : “Marcondiro, ndero, ndello, chi vive in quel castello?”. Se il dipendente risponderà correttamente (preferibilmente in latino) riceverà via mail, entro due mesi, al suo nuovo indirizzo di posta elettronica aziendale (le cui coordinate sono allegate alla presente e che andrà attivato entro il 31 dicembre 2017), una nuova password che dovrà inserire sul portale PHHJ per scaricare il documento contenente una nuova password che dovrà recitare ad alta voce affacciandosi alla finestra prima di gettarsi dalla stessa. Certi della vostra collaborazione, ricordiamo che in caso di mancata o errata esecuzione di questi passaggi il dipendente verrà crocifisso in sala mensa”.

burocrazia

 

 

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La amo, la Radio

di Fabio Colagrande

La amo, la radio. Chi può odiar la radio? Cosa darei, io, per fare sempre radio. So’ felice in radio, so’ radioso, in radio, so’. So’ in sintonia con la radio. Non mi radiate. Adoro la radio. Ardo per la radio. La radio è il mio dio. Di rado non ascolto la radio. Adirò le vie legali per restare sempre in radio. Solo chi è arido o senza ratio, come un’orda di barbari che compie un raid, non ascolta la radio. Il poeta parla di Omero alla radio. Anche Omero avrebbe potuto usare la radio. Non la tv. L’ortopedico può parlar del radio alla radio, ma volendo anche dell’omero (come il poeta) e dell’ulna. (Non quella cinelalia che a Pechino è un’altla cosa). La radio è attiva e non passiva, la radio. Ma non è radioattiva, la radio. Quello è un elemento chimico: il radio. Che non è il maschio della radio. Anche se è femmina la radio. Per questo parla tanto. Per questo la amo, la radio. E fin da piccolo sognavo di fare radio, forse perché mio padre era radiologo. E adoro la radio e i logos sulla radio. E anche un radiologo (che è sempre un po’ radioattivo) può parlare in radio del radio, dell’omero e dell’ulna. Naturalmente a braccio. E questa è una dichiarazione d’amore alla radio. Dovrei farla via radio, ma poi mi manderebbe via, dalla radio, don Dario. Mai darei l’addio alla radio. Mai la chiuderei in un armadio. Mi fa sentire allo stadio, la radio. L’ascolto in macchina la radio, con l’autoradio. Ed è un grande aiuto nel traffico, in auto, la radio. Ma in auto serve anche il radiatore. (Anche se il radiatore non recita, alla radio). L’ascolto al mare la radio, grazie alle onde radio. L’ascolto in bagno la radio, mentre mi rado. Anche se non mi rado per andare alla radio. Tanto sono in radio. Per questo la amo, la radio.

Testo concepito per l’avvenimento CARA RADIO del 30 OTTOBRE 2017 AUDITORIUM PALAZZO MATTEI DI GIOVE, ideato da Laura De Lucaradio

 

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