Fabio Colagrande
L’anniversario tondo dell’enciclica più tormentata di Paolo VI, coinciso con l’anno della canonizzazione del suo autore, ha dato a più di un commentatore l’opportunità di sfatare alcuni falsi miti sulla sua genesi e di ricomprenderne il valore. Nuove ricerche archivistiche[1] e riletture comparate tra il testo di Papa Montini e l’Amoris laetitia di Papa Francesco[2], hanno permesso di cogliere, da un lato, quanto l’Humanae vitae si fece carico delle tensioni post-conciliari, e dall’altro, quanto sia stata profetica la sua affermazione sull’inscindibilità antropologica tra amore coniugale e fecondità. Si tratta di considerazioni che aiutano a contestualizzarne il contenuto sullo sfondo dello sviluppo della dottrina che caratterizza la storia della Chiesa e al contempo ad apprezzare lo scatto in avanti, nella direzione della responsabilizzazione del ruolo genitoriale, che con essa si realizza nella pastorale familiare cattolica. È proprio a partire da quest’ultima osservazione, circa il riconoscimento degli sposi come «liberi e responsabili collaboratori di Dio creatore» (Humanae vitae 1), che è giustificato interrogarsi come gli studi sull’identità di genere, sviluppatisi nell’ultimo mezzo secolo, abbiano approfondito e ridefinito il ruolo degli sposi-genitori.
I temi cari al dibattito sulle “questioni di genere”, intese come prospettive culturali o fenomeni sociali connessi alla sessualità della persona umana[3], non sono evidenti – per naturali motivi storici – all’interno del testo dell’Humanae vitae. Ci si ferma, in quest’ambito, alla mera costatazione del «mutamento», del «modo di considerare la persona della donna e il suo posto nella società», inserita nel secondo paragrafo. Ovviamente, nel 1968, l’enciclica non poteva, e forse non voleva, andare oltre in una direzione che, oltre a esulare dalle sue finalità, per l’epoca era poco esplorata. Vi sono però nel documento pontificio degli accenni e delle lacune, in proposito, che – mantenendo ferma l’intuizione centrale dell’inscindibilità fra aspetto unitivo e procreativo nel matrimonio cristiano – si prestano a una rilettura feconda nella prospettiva che abbiamo scelto. Si apprezza così il valore fondativo di un documento magisteriale che, nonostante rifletta la visione di un’epoca storica sociologicamente ormai lontana, si presti a essere calato efficacemente nell’oggi mantenendo in nuce il suo valore etico e dottrinale.
In particolare, questa rilettura potrebbe rilanciare un tema sottaciuto del più recente magistero pontificio e cioè una visione rinnovata – per certi versi rivoluzionaria – dell’identità maschile e dunque – tornando all’Humanae vitae – del ruolo del marito e del padre nella vita matrimoniale cristiana. In questo senso, credo sia da condividere finalmente un’idea di quel complesso fenomeno chiamato “femminismo” non come accidente culturale responsabile della cosiddetta crisi del maschio, o del suo spiazzamento, ma anzi come movimento per lui salvifico: occasione di liberazione dalla maschera patriarcale per indagare finalmente le peculiarità del maschio, marito, padre, al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni. Si noti in proposito come sia stato lo stesso Papa Bergoglio, il 2 marzo 2018, in una lettera indirizzata alla scrittrice spagnola María Teresa Compte Grau – autrice del libro “Diez cosas que el papa Francisco propone a las mujeres” – a sollecitare esplicitamente una rinnovata ricerca antropologica che includa i nuovi progressi della scienza e delle attuali sensibilità culturali per andare sempre più a fondo non solo nell’identità femminile, ma anche in quella maschile, per servire così meglio l’essere umano nel suo insieme. È utile accennare, solo di passaggio, come appaia probabile che il percorso di ricerca auspicato dal Pontefice argentino potrebbe contribuire, al di là dell’ambito vocazionale matrimoniale, anche a una rinnovata comprensione delle figure maschili del religioso e del sacerdote, soprattutto alla luce della crisi che le ha investite negli ultimi decenni con l’esplosione dello scandalo degli abusi sessuali su minori commessi da membri del clero.
- Sposi immagine di Dio creatore, nelle loro differenze sessuali
La sorgente dell’amore coniugale per l’Humanae vitae è Dio amore: Deus Caritas. Il matrimonio, afferma il numero 8 del documento, è stato sapientemente e provvidenzialmente istituito da Dio creatore per realizzare nell’umanità il suo disegno di amore. In questa prospettiva, gli sposi sono collaboratori di Dio nella «generazione e educazione di nuove vite». A questo paragrafo dell’enciclica di Paolo VI si potrebbe accostare proficuamente un’altra, successiva, definizione della differenza sessuale, e dunque della capacità generativa degli sposi, come realtà che porta in sé l’immagine e la somiglianza di Dio. Partendo da Genesi 1, 26-27 sulla scorta di un documento pubblicato trent’anni dopo, la Mulieris dignitatem di San Giovanni Paolo II, si può non solo affermare che la sorgente dell’amore coniugale è Dio caritas, ma che nella coppia di sposi – «maschio e femmina li creò» – nell’«unità dei due», come la chiama Papa Wojtyla – è rispecchiata, per «somiglianza», la comunione d’amore che è in Dio. Di più, scorrendo la Lettera apostolica del 1998, apprendiamo che «paternità» e «maternità» umane, portano in sé la somiglianza con il «generare» divino e con quella «paternità» – si noti bene per Wojtyla «spirituale» e niente affatto «maschile» – che è in Dio. Rovesciando il ragionamento, si può dunque giungere ad affermare che l’immagine più piena di Dio creatore è costituita dall’uomo e dalla donna uniti nella loro capacità generativa o, addirittura, che l’immagine di Dio è stampata in loro proprio nella loro capacità generativa. Come ricordava Papa Francesco nell’Udienza generale del 15 aprile 2015, è perciò la «differenza sessuale» stessa a essere immagine di Dio, e allo stesso tempo, solo nella loro relazione reciproca uomo e donna possono comprendere fino in fondo cosa significa la loro specifica sessualità. Si capisce quindi come una messa a punto rinnovata delle questioni di genere, una ricomprensione del maschile e del femminile, anche dal punto di vista teologico, sia cruciale per approfondire oggi – sulla scia dell’Humane Vitae – l’idea di “paternità”, o forse meglio “genitorialità”, responsabile dal punto di vista cristiano. Voglio dire come, al di là del tema fulcro dell’enciclica di Papa Montini – la regolazione artificiale delle nascite – ci siano nella genitorialità vissuta evangelicamente – e dunque a immagine di Dio e della Sacra famiglia – aspetti che chiamano in causa le differenze sessuali e si prestano a interessanti ridefinizioni. Si vedano in proposito, nel capitolo quinto dell’Amoris laetitia di Papa Francesco, dedicato proprio alla fecondità, i numeri dal 172 al 177. Qui, a partire dalla riaffermazione del diritto del bambino ad avere un padre e una madre, si prova a descrivere, e a distinguere tra loro, l’«amore di madre» e quello «di padre», soffermandosi sulle peculiarità affettive e educative dei due sessi. Il testo registra l’attuale difficoltà che si riscontra nel ritrovare nella vita quotidiana dei genitori certe specificità materne e paterne, culturalmente radicate, ed evoca il rischio di una società senza più né madri, né padri. Sembra anche qui, dunque, opportuno ridare un’immagine più nitida al maschio-padre all’interno della relazione e della comunione tra gli sposi cristiani, insieme immagine di Dio creatore nella loro fecondità responsabile.
- Sposo e sposa, Cristo e la Chiesa
Se l’origine divina della capacità generativa, e quindi della differenza sessuale vissuta nella reciprocità, non sembra ancora messa a fuoco nell’Humanae vitae, nel paragrafo 25, dedicato alle direttive pastorali per gli sposi cristiani, troviamo invece la citazione paolina di Efesini 5 che ridisegna il rapporto tra marito e moglie sull’immagine di quello tra Cristo e la Chiesa. Paolo VI, nello spirito dell’Apostolo delle genti da cui prende il nome, insiste più sui doveri dei mariti che devono amare le loro mogli come il proprio corpo e diremo con Paolo essere pronti a dare la loro vita per loro. Colpisce, invece, l’assenza nell’enciclica di cinquant’anni fa del famigerato versetto 22 del testo paolino – le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore – ben spiegato da San Giovanni Paolo II al numero 24 della Mulieris dignitatem per liberarlo da letture patriarcali semitiche e greco-romane e chiarire la reciprocità della sottomissione nel matrimonio come dono. Un’esegesi ripresa recentemente dal numero 156 della stessa Amoris laetitia di Papa Francesco ma ancora oggi frutto di fraintendimenti nella pubblicistica cattolica. Mi riferisco a letture attuali[4] secondo le quali compito della sposa cristiana sia quello di lasciare che l’uomo possa fare l’uomo, che ripropongono cliché machisti limitanti e vuoti non tanto per le donne, ma proprio per i maschi stessi. Ebbene, cinquant’anni fa, l’Humanae vitae già sembrava evitare profeticamente questo percorso.
- Francesco critica il gender ma denuncia gli stereotipi di genere
L’Enciclica di Paolo VI però, non può, come si è detto, per natura, contesto storico e per gli obiettivi che si prescrive, andare oltre la presa di coscienza del mutamento – cui si assiste – del modo di considerare la persona della donna e il suo posto nella società. Oggi, invece, nel magistero di Papa Francesco, accanto alla decisa, inequivocabile e ripetuta denuncia dell’ideologia del gender che, attraverso una vera e propria “colonizzazione ideologica”, pretende di annullare le differenze sessuali, cancellare una distinzione naturale per affidarla alla libera scelta, troviamo numerose affermazioni che denunciano implicitamente i danni culturali e sociali degli stereotipi di genere nelle relazioni tra uomo e donna[5]. Entrambi i fenomeni, teoria del gender e stereotipi di genere, sembrano, tra l’altro, legati alla stessa difficoltà culturale a confrontarsi con la differenza sessuale.
Il Papa segnala, più volte, forme di maschilismo, eccessi delle culture patriarcali, prevaricazione, disparità di stipendio, violenze domestiche. Al numero 104 dell’Evangelii gaudium – testo del 2013 considerato il suo documento programmatico – chiede la presenza delle donne laddove si prendono decisioni importanti, nei diversi ambiti della Chiesa. Ancora, parla di sfide importanti, ineludibili che la rivendicazione dei legittimi diritti delle donne pone alla Chiesa. Al numero 54 dell’Amoris laetitia, la sua successiva Esortazione apostolica datata 2016, Papa Francesco denuncia letteralmente gli eccessi delle culture patriarcali, dove la donna era considerata di seconda classe. Si spinge a definire «una falsità», o meglio «una forma di maschilismo», l’affermazione secondo cui molti problemi attuali si sono verificati a partire dall’emancipazione della donna. Francesco si rallegra che in seno alle famiglie si sviluppi uno stile di reciprocità e nonostante definisca non adeguate alcune «forme di femminismo», arriva a considerare il riconoscimento più chiaro della dignità della donna e dei suoi diritti «opera dello Spirito». Ma già nel 2014, parlando ai partecipanti a un convegno organizzato dalla Congregazione per la dottrina della fede, il Papa, soffermandosi sulla “complementarietà” tra uomo e donna, era giunto addirittura a condannare l’idea semplicistica che tutti i ruoli e le relazioni di entrambi i sessi sono rinchiusi in un modello unico e statico e chiedeva di aprirsi all’inedito della differenza e cioè alla ricchezza e alla bellezza di una complementarietà diversa per ogni coppia di sposi. Più volte, in altre occasioni, come nella sopra citata lettera a Maria Teresa Compte Grau, Francesco denuncia come nella Chiesa il servizio, a cui ciascuno è chiamato, per le donne, si trasformi a volte in servitù. Chiede nuovi spazi per la donna nella teologia e nella vita della Chiesa e afferma provocatoriamente in numerose occasioni, come al raduno mondiale dei sacerdoti a Roma, il 12 giugno 2015, che non è femminismo affermare che la Madonna è più importante degli apostoli. Si tratta di un corpus di pronunciamenti, non ancora sistematizzato da Papa Francesco in un unico testo, che sembra allontanarsi dal pregiudizio culturale, ancora assai diffuso in ambito cattolico, secondo cui la donna sbaglierebbe a cercare di ribellarsi al suo destino stabilito da sempre – la sua vocazione a essere sposa e madre – cercando la sua realizzazione la dove non potrà mai trovarla. La direzione scelta, lungi dal voler abolire le differenze sessuali, su cui anzi Francesco insiste, sembra privilegiare, appunto, un rinnovamento delle identità di genere e al contempo un’apertura rispetto alla creatività e alla fantasia, dettate dallo Spirito, che rendono unica e irripetibile ogni esistenza e quindi ogni coppia di sposi.
- Lavoro e società: doveri e diritti dei genitori cristiani
A proposito delle ripetute denunce di Papa Francesco delle discriminazioni subite soprattutto dalle donne sul lavoro, si noti, di passaggio, quanto sarebbe interessante rileggere le direttive morali dell’Humanae vitae circa la responsabilità genitoriale alla luce della sua aperta condanna delle ingiustizie patite in particolare dalle donne in gravidanza: come la penalizzazione della maternità e la disparità di stipendio. Si veda ad esempio il Messaggio del Pontefice ai partecipanti al convegno «Donne e lavoro», datato 4 dicembre 2015, in cui si parla esplicitamente della necessità di valorizzare il lavoro femminile e di permettere alla donna di coniugare tempi lavorativi e familiari. È un aspetto che rivela come certo maschilismo, denunciato da Francesco, abbia radici economiche e culturali che hanno pesanti conseguenze sull’esercizio dei compiti dei genitori. Quest’ultime riducono la maternità a un ruolo sociale non modificabile e, al contempo, escludono l’uomo da compiti come allevamento e presa in cura dei figli che nessuna norma biologica gli preclude. E se nel 1968 Paolo VI parlava opportunamente dei doveri dei coniugi, verso Dio, verso se stessi, verso la famiglia e verso la società, sarebbe interessante riflettere sui diritti che gli stessi coniugi, o meglio gli stessi genitori, potrebbero rivendicare nei confronti della società, e chiedersi quali conseguenze derivino dalla differenza sessuale, per esempio, in ambito lavorativo. Si pensi, appunto, alla tutela delle lavoratrici in gravidanza o alle norme sul congedo parentale anche per i padri.
- L’idea di una nuova maschilità e paternità
Ma la vera novità del magistero pontificio più recente sembra essere la proposta di un’idea di paternità e maschilità nuove e diverse. E dunque l’indicazione di una prospettiva inedita per incarnare la responsabilità genitoriale rimarcata dall’Humanae vitae. È un’idea che si ritrova, ad esempio, in uno dei classici “tormentoni” che il Papa ripropone quando si parla del rapporto fra genitori e figli: la richiesta di una maggiore presenza del padre in famiglia, affinché giochi, cioè “perda tempo” con i figli. Un uomo, una persona adulta, un sacerdote – ha detto Francesco incontrando il «Forum delle Associazioni familiari» il 16 giugno 2018 – è maturo se è capace di giocare con i bambini. Per il Papa, un padre che va al lavoro mentre i figli ancora dormono, e torna a casa quando sono già addormentati, è vittima di una schiavitù, di un modo ingiusto di lavorare creato dalla società di oggi. Si tratta di una bella spallata a un modello di pater familias centrato esclusivamente sul mantenimento del nucleo familiare che lascia necessariamente ad altri, alla madre in primis, l’incombenza dell’educazione e dell’intrattenimento dei pargoli. Ma è più in generale l’insistenza degli insegnamenti di Papa Bergoglio su attitudini evangeliche come la capacità di pregare, aspettare, pazientare, su virtù cristiane come la tenerezza, la mitezza, la magnanimità, l’umiltà e la misericordia che spiazzano un’ermeneutica – in senso stereotipato – “virile” del cristianesimo. Virtù cosiddette «passive», affermava il Papa nell’omelia a Casa Santa Marta del 21 maggio 2018, ma che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme».
Francesco appare consapevole che non esista un essere umano generico, ma piuttosto esistano uomini e donne, con le loro differenze sessuali, che devono ritrovare una nuova «alleanza», significativamente definita «strategica» per «l’emancipazione dei popoli dalla colonizzazione del denaro» (Udienza generale del 16.09.15). Ma tutto ciò significa anche che il maschile è solo una parte dell’umano. E nel pensiero del Pontefice le sopracitate differenze non sono fatte per contrapporre o subordinare ma per creare comunione e generazione. E ciò che Francesco intende quando ripete che la più grande sfida per un uomo è «fare più donna sua moglie» e la più grande sfida per una donna è «fare più uomo suo marito». Solo in una relazione incarnata virtuosa, cioè, è possibile marcare reciprocamente e profondamente le differenze sessuali.
Ma soprattutto il Pontefice argentino ha intuito che c’è un processo di liberazione che riguarda il maschio e che deve puntare a dare una nuova veste al “genio maschile”. È una pista che nasce da un’esegesi neotestamentaria che vede in Gesù un modello di uomo che non basa la sua autorevolezza sul potere, o sulla forza, ma sull’ascolto, il silenzio e l’obbedienza. Un messia che – come notava Antonella Lumini in un dibattito sul ruolo della donna, sull’Osservatore Romano del 1° dicembre 2014 – ribalta gli schemi del dominio patriarcale, e porta alla luce un principio maschile positivo.
Francesco dimostra quest’orientamento nel capitolo settimo dell’Amoris laetitia, dedicato all’educazione dei figli, quando al numero 286 invoca un nuovo modo di essere maschile che permetta all’uomo di adattarsi con flessibilità alla condizione lavorativa della moglie. Addirittura parla della necessità di aiutare i bambini ad accettare come normali questi “sani interscambi”, che non tolgono alcuna dignità alla figura paterna, mettendo il dito sulla piaga di una cultura che svaluta il ruolo del padre nella presa in carico concreta e quotidiana dei figli. Il maschile e il femminile, spiega qui il Papa, non sono qualcosa di rigido. Ed è la rigidità, come esagerazione del maschile o del femminile, che – nella sua visione – allontana da quella reciprocità incarnata nelle condizioni reali del matrimonio. Insomma, per Papa Bergoglio, anche in questo caso, la realtà è superiore all’idea (Evangelii gaudium, 231).
Sono riflessioni generate dalla consapevolezza che una cultura abituata a considerare il maschile come “la regola” e il femminile come “la differenza”, non si è mai paradossalmente occupata di capire il maschile in tutta le sue possibilità[6], intrappolandolo nella macchietta del pater familias dominatore, padrone, guerriero, ormai stantia. E sono spunti che offrono la possibilità di superare la crisi della cosiddetta “assenza del padre” – denunciata, come già ricordato, anche dall’Amoris laetitia – o quella legata alla violenza di genere e al diffondersi dei fenomeni di “femminicidio”.
In questo senso, anche gran parte delle resistenze al magistero di Francesco si possono leggere come reviviscenza di quello che lui stesso definisce «machismo» anche nell’attuale cultura ecclesiale e in genere cattolica. La Lettera apostolica Misericordia et misera del 20 novembre 2016, che chiudeva l’Anno Santo della misericordia, proponeva – non a caso – come icone del Giubileo appena vissuto, due donne evangeliche – l’adultera di Giovanni 8 e la peccatrice di Luca 7 – viste in contrapposizione con i dottori della legge, i lapidatori e il fariseo: modelli maschili incapaci di comprendere la misericordia di Dio. Non è difficile ritrovare questa difficoltà a concepire e accogliere la radicalità evangelica, fondata sul perdono e l’accoglienza, più che sulla condanna e l’esclusione, nei principali detrattori del pontificato di Francesco.
- San Giuseppe, padre putativo: archetipo rivoluzionario
La conferma di quest’ermeneutica del magistero di Papa Bergoglio ha un nome. È quello di un Santo che rappresenta per lui il modello della paternità responsabile nella Chiesa di oggi e l’icona più efficace per rilanciarlo. È Giuseppe, lo sposo di Maria, il falegname di Nazareth, il santo più caro a Francesco che – come ha rivelato lui stesso a Manila, il 16 gennaio 2015 – tiene nella sua camera a Casa Santa Marta una statuetta di un San Giuseppe “dormiente” a cui affida, sotto forma di biglietti, intenzioni e richieste di grazie. Nell’udienza ai dirigenti e al personale del quotidiano Avvenire, il 1° maggio 2018, Francesco lo descrive come «l’uomo del silenzio», «dell’ascolto», «l’uomo che sa destarsi e alzarsi nella notte». Ancora, «l’uomo giusto», «il custode discreto e premuroso», l’educatore che – senza pretendere nulla per sé – diventa padre grazie al suo esserci, alla sua capacità di accompagnare, di far crescere la vita e trasmettere un lavoro. E questo ruolo esemplare di Giuseppe come educatore era stato rimarcato dal Papa già durante l’Udienza generale del 19 marzo 2014, quando aveva affermato che egli è modello per ogni educatore, in particolare per ogni padre, invitando poi i papà presenti in piazza, nel giorno della loro festa, a essere sempre vicini ai figli: loro hanno bisogno di voi, della vostra presenza, della vostra vicinanza, del vostro amore. E sottolineando che solo nella vicinanza, camminando con i propri figli, si può essere per loro veri educatori. Sono descrizioni e moniti che vanno a disegnare una figura paterna nuova, particolare, centrata sulle responsabilità verso i figli, sul loro accompagnamento nella crescita, più che sul ruolo sociale e nel mondo del lavoro dello stesso genitore.
Un passo ulteriore nella direzione dell’esemplarità di San Giuseppe come nuovo modello di padre evangelico lo compie Antonella Lumini in un articolo apparso sull’Osservatore Romano il 21 marzo 2018, dedicato, appunto, al «padre putativo di Gesù». Anche qui si ricordano significativamente le attitudini diremo materne di Giuseppe: attento, presente, mite. Si prende cura, protegge, custodisce, accompagna, enumerando virtù non certo tradizionalmente maschili come l’obbedienza, la pazienza, l’umiltà, il silenzio. Ma, per l’autrice, l’aspetto che fa compiere a Giuseppe un vero «salto di qualità», trasformandolo nello strumento attraverso cui prende origine la nuova umanità che inizia con Gesù, è l’aver accettato il ruolo di «padre putativo». Così facendo, egli rompe uno schema ancestrale: dà un colpo definitivo alla struttura della famiglia patriarcale fondata sul potere del pater, considerato proprietario dei familiari in base al legame di sangue. Per di più – seguendo il ragionamento della Lumini – Giuseppe è un padre putativo che con Maria «vergine» crea un modello familiare inedito, in cui i legami spirituali si sostituiscono a quelli carnali, non per svilire questi ultimi ma per aprire all’immagine di una famiglia in cui ci siano relazioni d’amore liberate da ogni vincolo e valorizzare la genitorialità spirituale. Giuseppe si trasforma così da antica icona a un modello evangelico vivo e attuale di una figura paterna rivoluzionaria che ribalta le convenzioni familiari e chiama i padri di oggi a un compito nuovo, forse più impegnativo rispetto al passato, ma senz’altro più umanamente e cristianamente gratificante.
- Conclusioni: un nuovo inizio
Il breve itinerario sin qui accennato ha lasciato intravedere i possibili sviluppi del concetto di responsabilità genitoriale degli sposi cristiani, tra i tesori dell’Humanae vitae di Paolo VI, sul fronte del rinnovamento delle identità di genere e quindi dei ruoli della madre e del padre in ambito familiare e sociale, come riflesso della maternità e paternità di Dio. Tutto ciò sulla scia del magistero pontificio più recente in materia, che – pur essendo aperto alle sorprese dello Spirito – stabilisce come principi inderogabili la condanna sia di ogni tentativo di neutralizzazione delle differenze sessuali, come di ogni standardizzazione delle stesse. Ma, soprattutto, la convinzione che il creato e la storia siano stati affidati dal Padre all’alleanza tra l’uomo e la donna, chiamati non soltanto a parlarsi d’amore, ma a parlarsi, con amore, di ciò che devono fare perché la convivenza umana si realizzi nella luce dell’amore di Dio per ogni creatura (Udienza alla Pontificia accademia per la vita, 5 ottobre 2017). Anche la sfida della rinascita della figura paterna, evocata dagli insegnamenti di Papa Bergoglio, sembra inserirsi in quello che lui stesso ha definito «un nuovo inizio» che «dev’essere scritto nell’ethos dei popoli» proprio attraverso una «rinnovata cultura dell’identità e della differenza».
Come ha insegnato l’Amoris laetitia, uno dei rischi da evitare, nella ridefinizione del ruolo dei genitori, è quello di cadere in nuovi astratti stereotipi che ignorino la concretezza della vita familiare. La strada sembra essere perciò quella di discernere, di volta in volta, come la verità evangelica s’incarni materialmente nell’esperienza quotidiana di ogni relazione coniugale e genitoriale, nello spirito ecclesiale indicato al numero 169 dell’Evangelii gaudium: tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro.
[1] G. Marengo, La nascita di un’enciclica. Humanae vitae alla luce degli archivi vaticani, Lev, Roma 2018
[2] L. Moia, Il metodo per amare. Un’inchiesta. L’Humanae Vitae 50 anni dopo, San Paolo, Milano 2018
[3] R. Torti, voce: “Genere”, in Vocabolario di Papa Francesco, a cura di A. Carriero, Elledici, Torino 2015
[4] C. Miriano, Sposati e sii sottomessa. Pratica estrema per donne senza paura, Sonzogno, Milano 2013
[5] R. Torti, Op. cit.
[6] R. Torti, Mamma, perché Dio è maschio? Educazione e differenze di genere, Effatà, Roma 2013, pp. 37-39
Articolo scritto per il volume”La famiglia a cinquant’anni da «Humanae vitae». Attualità e riflessione etica”, edizioni Studium 2019